rubrica curata da Stefano
Riguardo la pratica continuiamo a cercare il modo con cui appare questo senso di SE, dobbiamo conoscerci e, per farlo, dobbiamo osservarci; quindi durante la meditazione vediamo come agisce, come funziona questo senso di SE: cerchiamoci, vediamo se siamo un’entità, una sensazione o un processo.
Nella quotidianità proviamo invece ad osservare come ci poniamo, come ci relazioniamo nei confronti dell’inatteso: siamo reazione? siamo passività? siamo curiosità? O siamo invece frastornati? Ci addormentiamo immediatamente per non volerne sapere niente? imprechiamo, apriamo il cellulare o rimaniamo semplicemente con quel che c’è?
In meditazione proviamo a far emergere una sensazione o una emozione particolarmente spiacevole, e poi cerchiamo chi la sta sperimentando, dove la sta sperimentando e quando. Cerchiamo chi è che sta sperimentando, chi è il proprietario di questa condizione.
Questo è un esempio di approccio “analitico” con il quale ci si addestra nella quotidianità a riconoscere immediatamente questa attitudine nell’immedesimarsi in qualcosa e poi reagire.Tale approccio, nella sua modalità, è in grado di disinnescare questo meccanismo reattivo: potremmo infatti scoprire, cercando chi è che sperimenta quell’emozione o quella sensazione spiacevole, che quella necessità di appropriazione è sofferenza, che quel dover andare necessariamente dietro alla sensazione e emozione è dolore.
Una delle forme analitiche della meditazione, soprattutto quando c’è un pensiero persistente, consiste nel chiedersi: questo pensiero viene da qualche luogo che non sia la mente? dimora in qualche luogo che non sia la mente? e la mente dove è? quando è?
Ecco allora il compito per questa settimana: cercare chi è che sta sperimentando, chi possiede e dov’è che accade questa esperienza, quando e in che luogo, dove.
“Cercare” è la parola chiave da tenere presente per questa settimana, perché ci può suggerire il modo per uscire dall’abitudine con cui ci riferiamo a noi stessi, da quel modo con cui reagiamo alle situazioni per le quali soffriamo, da quel malessere che spesso non riusciamo nemmeno a identificare.
Questa settimana proviamo a concentrarci sulla gentilezza: utilizziamo la gentilezza per prenderci cura delle cose, utilizzandole e custodendole con delicatezza, osserviamo con attenzione questa delicatezza.
Anche nei momenti di lavoro nei quali c’è frenesia, proviamo a rispondere alle persone senza fervore o rabbia ma, almeno in qualche momento, con gentilezza, anche se risoluta: rispondere il giusto con gentilezza, non c’è bisogno di riaffermare un’identità contro a un’altra entità. La ferma gentilezza dissolve in sé paure, avversioni, desideri sbagliati, pulsioni, e compulsioni.
Accompagniamo la moneta con cui facciamo l’elemosina a qualcuno con uno sguardo negli occhi e, anche se non possiamo fermarci a conoscere questa persona, per quel momento facciamola entrare nella nostra vita.
Lavoriamo quindi questa settimana su una “gentilezza consapevole”: una gentilezza che produca conoscenza, è un’attenzione consapevole. vediamo se riusciamo, per qualche momento, a dimenticarci di noi e della mitologia della nostra sofferenza, dell’importanza della nostra sofferenza.
Il compito di questa settimana parte da un interrogativo:
quando è che abbiamo cominciato a sentire di stare perdendo tempo? quando eravamo bambini e giocavamo o adesso che siamo esseri funzionali che devono servire a ottenere e realizzare qualcosa, per farsi vedere e riconoscere da qualcun altro? Quando è che sentiamo di perdere tempo? E perché percepiamo questa sensazione di stare perdendo tempo?
Perciò, per questa settimana, il compito sarà: fare attenzione a scoprirci consapevoli di quando sentiamo di stare perdendo tempo, e quindi fare attenzione al perché sentiamo di stare perdendo tempo.
questa settimana un duplice compito ci attende:
– Nella meditazione, proviamo a risperimentare la sensazione provata nel corso dell’ultima pratica: portare l’esperienza di stabilizzazione su una sensazione senza identificazione, partire dalle gote o dal quel punto del corpo che più si fa sentire in questo per poi espandere la mappatura su tutto il corpo, fino a dimenticare il corpo, non avvertire più l’entità corpo e l’entità IO che è nel corpo, ma solo la presenza della sensazione.
Iniziamo quindi col portare l’attenzione all’interno e, osservando le sensazioni, lasciamo andare pian piano il senso di appropriazione, per fare in modo che la nostra attenzione sia sempre più accentrata sul “sentire”; cominceremo in questo modo ad accorgerci che la pancia, il petto, le braccia, sono divenuti spazi vuoti, poi magari avvertiremo delle vibrazioni delle mani, lentamente la pressione sugli gli zigomi si assorbe lasciando un spazio vuoto; spazi vuoti che, in quanto tali, non sono più definibili da nessuno né più definibili come qualcosa, non più caratterizzabili: conseguentemente il fenomeno dell’appropriazione viene meno e, quindi, viene meno il senso di me come separato da un’esperienza: uno stato di pura concentrazione con uno stato di puro riconoscimento, senza però un riconoscimento.
questo modo di meditare permette un contatto con sé stessi e con il corpo in modo molto differente, permette di andare oltre la fissazione di sé stessi e sentire un corpo effettivamente differente, un corpo di energia e luce.
– Nella quotidianità invece, con l’insorgere della sensazione, proviamo fare attenzione a quel senso di appropriazione che ti fa sentire “questo sono IO”, rispetto alla pura sensazione, cioè il contatto; ciò corrisponde a cominciare fare attenzione in “maniera più approfondita”.
Un compito all’apparenza semplice, ma in realtà molto arduo ci attende per questa settimana:
Osserviamo, ogni volta che parliamo, quante volte diciamo IO, e quanto riusciamo a non dire IO, come questo cambia o appesantisce il senso di noi mentre comunichiamo.
Teniamo presente che il linguaggio dell’IO è una forma di comunicazione, così come l’assenza della parola IO corrisponde a un’altra forma di comunicazione.
Proviamo quindi, mentre parliamo, a osservare quante volte ci viene da dire IO, e cosa succede se non lo pronunciamo.
Ancora una volta la parola d’ordine è “fare molta attenzione”.
Questa settimana riflettiamo sul seguente tema:
quanta prospettiva, quanta aspettativa di futuro c’è in quello che facciamo ogni giorno, a partire dal momento in cui ci svegliamo, ci alziamo e ci prepariamo per la giornata? Chiediamoci se “ci siamo” realmente in questo momento, in ciò che stiamo facendo, o se piuttosto siamo già proiettati a …
Lavoriamo costantemente su questa riflessione, perché ogni momento della giornata può essere utile per la nostra pratica, da quando ci svegliamo in poi.
Se vi state “domandando” qual è il compito per questa settimana, eccovi accontentati 🙂
Proviamo a porci le domande giuste: “perché tornato a casa continuo a portarmi dietro nella mente pensieri? Cosa realmente mi impedisce di lasciarmi andare? Perché continuo a rimanere legato al senso di ingiustizia che mi è stato perpetrato anni fa?” Sono queste le domande che dobbiamo cercare di rivolgere a noi stessi.
La pacificazione che stiamo cercando non arriva con il sistemare le nostre relazioni, avere il lavoro migliore, la salute migliore e le condizioni ambientali migliori; la pacificazione non arriverà mai da questo, ma dal lasciare andare la preoccupazione per tutto questo, non intendendo con ciò il ritrarsi per forza dal mondo, ma piuttosto trovare quella condizione intima di pacificazione che si interfaccia direttamente con tutta l’esperienza e che ci permette di essere agente attivo, cioè parte integrante dell’esperienza e non soggetto astratto, che manipola o fugge o entra in conflitto, perché non conosce la vera natura dell’esperienza.
Quindi, per questa settimana, il nostro compito sarà quello di porsi le domande giuste in relazione alle nostre difficoltà e, alla consapevolezza di ognuno di noi, lasciare emergere la domanda giusta; non ci sono risposte, non stiamo cercando queste, bensì stiamo cercando le domande giuste.
Anche per questa settimana il compito è quello di continuare l’osservazione sulla reazione emotiva; in aggiunta però, ogni volta che riusciamo a osservare tale reazione senza andarle dietro, proviamo a riflettere sulla seguente frase: “ma che problema c’è”, perché questa frase implica due cose:
1) non c’è alcun problema che tu, emozione, sia qui;
2) che problema c’è, io sto tanto bene.
Quindi questa frase, nel concreto, implica un’intenzione, da usarsi come un mantra per un’intenzione.
Rinnoviamo il compito della settimana proseguendo sulla strada già intrapresa la settimana scorsa: osserviamo quindi con attenzione e non giudizio la nostra reattività emotiva nel momento in cui questa emerge, indipendentemente dal motivo per cui questa è sorta (il non giudizio è l’aspetto dell’amorevolezza); tratteniamoci dall’andarle dietro e creiamo piuttosto quello spazio di “disimmedesimazione” che ci consente di poter osservare (testimone non coinvolto) il modo in cui la reazione emotiva si manifesta, così da poterla riconosce, evitando allo stesso tempo di agire o di rifiutarla: è questa la via di mezzo.
Per questa settimana esercitiamoci nell’osservarci nel momento in cui stiamo per reagire emotivamente, proviamo quindi a osservare, a prescindere dalle circostanze, la nostra reazione emotiva, senza però alimentarla; fermiamoci ad osservare, anche se siamo nel giusto, ripensando alla figura del “testimone non coinvolto”.
Quando ci viene detto qualcosa di sgradevole, anche se arrivano il pensiero spiacevole e l’emozione, quando cioè parte il pensiero, la reazione emotiva e poi il dolore all’interno del corpo, abbiamo in quel momento ancora il potere di fermarci e di non aggiungere altri pensieri, analisi e interpretazioni, proviamo allora a rimanere semplicemente in presenza del dolore, del fastidio e della spiacevolezza, che diventano così esperienza di pratica.
Rimanere col dolore senza fare altro vuol dire disinnescare l’abitudine alla reazione immediata, relegando il dolore a mera presenza, che non influisce più sul nostro stato emotivo e sulla nostra successiva capacità cognitiva: in altre parole rimaniamo “liberi in presenza del dolore” e “in agio in presenza del disagio”.
Partendo dal suggerimento di Francesco, ecco formulato il compito per questa settimana:
quando entro in contatto con un’esperienza in che modo ciò avviene? Ci sono delle modalità che si ripetono nel mio entrare in contatto con qualcosa? O nell’evitare il contatto? Ci sono delle modalità, delle forme mentali che si ripetono quando entro in contatto o quando tento di evitare il contatto con un’esperienza? Proviamo a fare luce, ad essere attenti su questo, perché se ci sono delle forme mentali che si ripetono quando entro in contatto con un’esperienza, allora potremmo scoprire “l’abitudine” e quindi poi essere in grado di disinnescarla.
Proseguiamo con il compito della scorsa settimana, cercando di renderlo ora più definito:
proviamo a osservare meglio l’esigenza del controllo del nostro senso di inadeguatezza, qualora questo dovesse presentarsi, senza però analizzare, senza cercare, semmai proviamo a sentire i riverberi delle sensazioni che più facilmente possono spingerci a voler rinunciare a questa pseudo-esigenza del controllo.
Più che analizzarci, “sentiamoci”.
Buon lavoro a tutti.
il compito da assolvere per questa settimana:
osservare, nel momento in cui proviamo inadeguatezza, come si è manifestata questa sensazione, senza necessariamente dover approfondire l’analisi; osserviamo quindi semplicemente, quando si dovesse avvertire un senso di inadeguatezza, come questo si è manifestato.
Soprattutto cerchiamo di comprendere quanto crediamo a noi stessi quando avvertiamo il senso di inadeguatezza, e poi osserviamo come questo arriva e infine come certifica il nostro essere.
Buon lavoro 😁
il compito da assolvere per questa settimana:
“osserviamo i nostri desideri”,
vediamo cioè se alla fine della giornata la somma dei nostri desideri, anche i più piccoli, ci ha portato a uno stato di soddisfazione, di insoddisfazione, oppure se ci ha lasciato neutri.
Proviamo quindi, prima di addormentarci, a fare un bilancio su come è andata la nostra giornata, osserviamo con attenzione cosa ci è piaciuto e se c’è stato in questo del trasporto, inteso come desiderio o avversione.
Alla luce di ciò, sommando tutti i nostri desideri, domandiamoci come stiamo realmente, cercando in tal modo di raggiungere uno stato di consapevolezza ed entrare in intimo contatto con noi stessi.
Buon lavoro a tutti.
Per questa settimana sembra sia arrivato il momento di cominciare a fare attenzione alla vita come processo; allo scopo, il fare attenzione alle nostre reazioni emotive e alla qualità del nostro pensiero, possono indurci alla visione di questo processo. Osserviamo le reazioni a noi stessi alle nostre esperienze in quanto necessità di controllo. Tentiamo di cogliere nelle nostre esperienze, reazioni, pensieri ed emozioni, l’eventuale presenza della “necessità di controllo” e vediamo se la consapevolezza di questo può cambiarci qualcosa, oppure no.
In definitiva: osservazione del senso di “bisogno del controllo”.
Per questa settimana reiteriamo il compito della volta scorsa:
il linguaggio contribuisce a creare quello che noi riteniamo essere il nostro mondo la nostra realtà, per cui continuiamo a osservare cosa c’è dietro il nostro dire (perché il dire diventa fare, il dire traduce il pensiero e l’azione traduce il dire) guardiamo le vere intenzioni celate dietro le nostre parole e le nostre frasi, soprattutto quando abbiamo bisogno di imporre le nostre idee. Guardiamo con consapevolezza cosa stiamo realmente facendo nel dire qualcosa, e se ci sono degli alibi nascosti dietro le nostre parole.
Durante la giornata, quando possibile, tentiamo di renderci indipendenti dalle nostre abitudini al riconoscimento costante e continuo, alla necessità di dover far riferimento a pensieri che definiscono e caratterizzano; proviamo a renderci indipendenti dal dover chiamare con un nome una cosa, e osserviamo poi cosa succede.
Utilizziamo, quando possiamo, la tecnica dello sguardo “sfocato”, senza fissare nulla in particolare restando però consapevoli; in questo modo, pur rimanendo in contatto con i fenomeni dell’esperienza del momento specifico, non c’è più il sorgere dell’identificazione che richiama la necessità di fare o non fare qualcosa.
Durante la pratica, puntare lo sguardo sfocato e rimanere in meditazione, al termine della quale cercare di vedere se c’è stato il senso di perdita di qualcosa o di se stessi, piuttosto che un senso di pacificazione e se siamo rimasti indipendenti dai fenomeni della nostra esperienza.
Iniziamo così a rendere la nostra percezione sempre più sottile e, conseguentemente, maggiormente indipendente dalla continua esperienza di tipo “causa-effetto”.
Tornare a “fare attenzione”. Proviamo perciò a renderci conto che quello che stiamo sperimentando in un dato momento é un processo, non rappresenta un’entità a se stante: le nostre relazioni, le nostre vicende e anche il nostro pensare possono, e devono, essere visti come un processo. Quindi fare attenzione alla nostra vita significa pensarla come un processo: osservare le sensazioni che sorgono dal contatto, che ci portano a dire “mi piace” o “non mi piace” e successivamente a isolare qualcosa, che produce un’emozione, e che infine ci porta a dire “io sono“. Buon lavoro a tutti