Obiettivo della settimana 2 dicembre – 8 dicembre

Mañjuśrī ci viene in aiuto


Portiamo nel quotidiano quanto detto fino ad ora in tema di vacuità, le domande:

1° fase

 La pratica sul respiro, la più comune e antica

2° fase

 La meditazione analitica: osservazione di un oggetto nella mente

3° fase

Lasciare andare, non afferrarsi ai caratteri che proiettiamo sulle cose

Alcuni interrogativi che richiedono una riflessione approfondita, cominciamo con la designazione concettuale

Avviene quando noi pensiamo o nominiamo un carro e immediatamente appare una forma/immagine nella nostra mente proprio dell’oggetto pensato o nominato. Ma l’oggetto “carro” non è altro che un insieme di parti che messe assieme danno questa forma e una designazione nominale. Immagine e nome sono caratteri indispensabili per comunicare qualcosa o per richiamarlo alla mente.

Ora qualcosa del ragionamento di Candrakīrti comincia ad affiorare, i primi due ragionamenti

1) Non esiste alcun carro che sia diverso dalle sue parti
2) Non esiste alcun carro che sia la stessa cosa delle sue parti

Il primo

per parlare del carro e poterlo immaginare, ho bisogno di qualcosa che sia un carattere cioè delle parti messe in un modo e definite da un nome. Pertanto l’entità carro, sulla base del mio modo di pensare, non esiste senza dipendere dalle parti che lo compongono ma se dipende dalle parti non può essere un’identità. Infatti l’identità è una cosa, le parti sono molteplici e in quelle parti non c’è nessuna entità carro. L’identità, infatti, si riferisce a qualcosa uguale a se stessa, essendo uguale a se stessa, essendo definita da se stessa, non può avere né un principio né una fine quindi non può dipendere da nulla, in caso contrario se ci fosse la dipendenza da qualcosa vorrebbe dire che: prima non era in un modo e poi dipendendo da qualcosa è apparso in quel modo.

Il secondo

 io sono abituato a pensare che quando dico carro penso a una cosa unica e invece ho bisogno di un nome e di immaginare delle parti; quindi ho bisogno di qualcosa che è oltre la semplice parola carro. Oltretutto se carro rappresenta la stessa cosa delle parti che lo compongono allora tante sono queste parti e tanti saranno i carri. Cioè se il carro è la stessa cosa delle parti vorrebbe dire che se io tolgo una ruota da quell’insieme quella ruota è un carro? In definitiva l’idea che ho di qualcosa in realtà dipende da tutto un insieme di cose che sono impermanenti, perché a loro volta sono l’apparire di un insieme di parti che prima non erano così poi per cause e condizioni si sono trovate a unirsi e perciò quell’unione è un apparire.

L’apparire

Ho un vecchio amico che si chiama Marco. Nell’identificarlo sto definendo un apparire o un’identità?
Quale delle due?
Nella maggior parte delle ipotesi io quell’amico lo considero come un’entità a sé stante, non percepisco orecchio, cuore, polmoni, etc. io lo vedo come un’unicità, Lo vedo e identifico come una forma.
Ma facciamo l’ipotesi che non abbia in mente la forma di Marco non saprei più chi sia, a questo punto di lui non saprei niente. Per questo mi rifugio nella forma di qualcosa e nel suo nome cioè creo un’identità, l’esatto contrario dell’apparire.

Dall’apparire all’attaccamento

Avendo definito un’entità (Marco, carro, etc., quello che in realtà rappresenta un apparire in quanto dipendente da cose che si sono trovate per natura a interdipendere e quindi soggette al cambiamento), sorge inevitabilmente una sorta di attaccamento alla forma che mi sono rappresentato. Cosicché quando quella forma andrà mutando io non la riconoscerò più e, in conseguenza del mio attaccamento alla forma precedente, sperimenterò sofferenza.
Ci si aspetta sempre di ritrovare la stessa forma iniziale, quella che in qualche modo ci rassicurava, ci faceva pensare di ritrovare qualcosa che rispondeva alle aspettative di partenza. Così nasce l’idea di una promessa tradita in quanto basata su un ritrovamento cioè su un’identità.

Torniamo a parlare dell’identità e ai due quesiti principali di Candrakīrti

L’identità è qualcosa di uguale a se stesso. Perciò se è uguale a se stesso lo ritrovo sempre uguale a se stesso. Ma nel momento in cui questo non accade, dov’è l’identità?

L’entità Marco (questo fantomatico amico) forse è nella forma….ma Marco nel corso del tempo si è modificato proprio nella forma, quella fissità (connaturata all’entità Marco) in svariati piani non la trovo. Mentre nel concreto, visto che il cambiamento avviene molto lentamente, non lo percepisco, cosicché il “mio Marco” rappresenta un ritrovamento continuo. Così è quando ci specchiamo tutti i giorni e nonostante ciò non siamo in grado di recepire, sperimentare intuitivamente il cambiamento della nostra forma ma….continuiamo a dire: “questo sono io“.

Perché la morte è così tragica

Strettamente connesso a quanto detto finora è evidente che la morte rappresenta un cambiamento troppo repentino per poter essere accettato dal modo abituale con cui noi percepiamo il cambiamento.

La nascita del senso di appropriazione ed il senso innato del sé

L’esperienza sull’identità, a questo punto del discorso, rappresenta un’esperienza basata sul ritrovamento della stessa forma per la ricerca di una stabilità e sicurezza. Del resto se qualcuno ci insulta in modo del tutto inaspettato, subentra una sensazione di qualcosa che è mio, che mi appartiene. Quanto mi è stato detto cozza con la mia sensazione, idea di stabilità e avverto un mal di pancia. Nasce un senso di appropriazione: quello che sta succedendo non è semplicemente ideale, non è semplicemente artificiale è qualcosa che riguarda me.

Secondo i Gelugpa il problema principale, la fonte di tutti i nostri problemi è proprio questo senso innato di sé.

Questo senso innato c’è ancor prima della nascita, ce lo portiamo dietro da sempre. Ma senza scomodare le rinascite, semplicemente il momento in cui il bambino viene estratto dal grembo ed ha la percezione per esempio del freddo, senza il concetto, il pensiero, il ragionamento avverte subito qualcosa di differente da sé, quindi c’è l’appropriazione dell’esperienza: ovviamente il bambino appena nato non dice questo non sono io, ma il senso dell’appropriazione c’è, perché c’è un senso di diversificazione che viene sperimentato attraverso il dolore perché nel grembo della madre quella sensazione dolorosa non c’era. Nel grembo della madre c’era un’unità esperienziale, appena viene estratto dal grembo della madre quell’unità esperienziale non c’è più mentre ci sono delle unità differenti.


Per concludere: il continuum

Un carro, l’altro, un lui, una lei che mi hanno indotto delle sensazioni, ingenerando attaccamento, intrinsecamente non esistono, in quanto rappresentano un flusso di esperienza, un flusso di apparire. Ma questo non significa che l’altra persona sparisce ma bensì appare sulla base di parti in associazione e dissociazione continua.
Tanto per citare l’amico “Marco” con cui io interagisco, appare sulla base dei suoi aggregati che sono in continuo divenire. In realtà non sto incontrando un entità ma sto incontrando un continuum, così bisognerebbe cominciare a dire, pensare, parlare, nell’incontro tra noi e gli altri, ad un incontro tra continuum, non tra identità. Perché un continuum è un’esperienza in continuo divenire, un flusso in continuo divenire di esperienze anche coscienti, di punti istanti di coscienza e ogni singolo punto istante di coscienza trasmette a quello successivo una vagonata di eredità esperienziale coscienti in un continuum appunto di trasferimenti e trasformazione; l’errore sta nel fatto che si scambia quel continuum per un’entità, identità al quale mi lego aspettando di avere sempre lo stesso risultato. Non trovandolo sperimento dolore.

(estratto dal discorso del 1° dicembre 22) qui è possibile scaricare il testo sul Settuplice Ragionamento