Nāgārjuna

Nāgārjuna, conosciuto anche come il secondo Buddha, è stato forse il primo grande maestro della tradizione buddhista Mahāyāna, incentrata sulla figura salvifica del bodhisattva, colui che, grazie alla visione della condizione ultima dei fenomeni e all’esperienza diretta della compassione verso tutti gli esseri senzienti, genera volontà e impegno per giungere alla condizione di Buddha, affinché possa disporre dei mezzi validi per condurre alla liberazione dalla sofferenza (duḥkha) tutti gli esseri. Si ritiene che Nāgārjuna possa essere nato nel II secolo d.C. nell’India meridionale, in particolare nella regione dell’odierno Andhra Pradesh. Tuttavia le notizie relative alla sua vita sfumano in ogni caso nel fulgore del mito. La prima parte del nome, per tradizione, deriverebbe dal suo incontro con i Nāga, figure ctonie della tradizione indiana dalla forma di serpenti o dragoni, caratterizzati da un potere ambivalente portatore di grande saggezza e tesori così come di epidemie e distruzioni. Nel regno sottomarino dei Nāga, Nāgārjuna avrebbe ricevuto i Prajñāpāramitāsūtra (i cosiddetti sūtra della “Perfezione della Saggezza”, letteratura basata sulla condizione naturale di tutti i fenomeni e sul percorso del bodhisattva). Tali sūtra, secondo la tradizione, sarebbero stati affidati ai Nāga dal Buddha Śākyamuni in persona. La seconda parte del nome, Arjuna, deriverebbe da una tradizione per la quale Nāgārjuna sarebbe nato sotto un albero di Terminalia Arjuna.
Sulla base della dottrina buddhista dell’origine dipendente di tutti i fenomeni (pratītyasamutpāda), per la quale ogni fenomeno emerge solo grazie ad altri fenomeni che lo hanno preceduto, la letteratura dei Prajñāpāramitāsūtra pone in risalto il fatto che nessun fenomeno, non solo gli esseri senzienti, ma tutti gli elementi dell’esperienza, mancano di un’essenza (svabhāva) propria, di un mattone ultimo sulla base del quale si originano, appaiono e si manifestano. Ogni fenomeno non è, ma appare essere solo grazie a un continuo flusso di interdipendenza e impermanenza, esperienza che elimina la possibilità di una causa indipendente, creatasi da sé ed eterna.
Sulla base di ciò Nāgārjuna, definisce i fenomeni come vuoti (śūnya) di una stessa loro identità (niḥsvabhāvatā); ne sono vuoti in quanto sono del tutto determinati dalle parti che li compongono, dagli aggregati (skandha), sulla base dei quali appaiono essere. Per fare un esempio: non esiste una “entità tavolo” al di fuori delle parti che compongono il tavolo, né si può dire che tavolo sia una sola delle parti o tutte le parti che lo compongono, altrimenti si avrebbe o un tavolo che insieme ad altre parti che non sono tavolo dà manifestazione a…sé stesso, o tanti tavoli che messi insieme danno come esito…ancora tavolo. Né si può affermare che il tavolo sia l’insieme delle parti, altrimenti, semplicemente impilando tali parti una sopra l’altra, dovremmo sempre avere come esito il tavolo in esame. Tavolo è un’etichetta, un termine di comodo, un’imputazione nominale, per indicare un modo di disporre delle parti per ottenere una funzione, quella di supportare, di sostenere, di far da base di appoggio. Ma un modo, dunque, non è un essere, e “tavolo”, essendo semplicemente un’espressione, dipendente dalla sua funzione di indicare a sua volta un modo di disporre delle parti per ottenere una funzione, è qualcosa che non possiede una propria entità, esiste solo in dipendenza dal bisogno di indicare qualcosa, e dipende in tutto e per tutto da un modo di interdipendere di qualcos’altro. L’entità tavolo, dunque, è vuota di un’identità propria, di un’esistenza a sé stante, ciononostante il fenomeno in quanto espressione di una modalià, e non di un sé, esiste e solo in tale condizione può apparire e svolgere la funzione per la quale appare essere. D’altro canto, qualcosa che non dipende da nulla, che non è condizionato nel suo apparire da qualcosa che lo precede, non cambierebbe mai, non potrebbe dipendere da alcuna caratteristica per poter essere conosciuto, e, proprio per questa condizione di immutabilità, non potrebbe mai entrare in contatto con nulla e dar vita a qualcosa, poiché, appunto, altrimenti cambierebbe, e tale cambiamento si avrebbe in dipendenza dall’incontro con altro.
Se le cose esistono, dunque, se appaiono, è perché, non avendo una propria natura immutabile, dipendono da altro e saranno a loro volta, mutando, causa di altro. Tale è la visione detta della “vacuità” (śunyātā): se da una parte tale visione elimina l’idea di un eternalismo, di un esistere, cioè, continuativo di per sé, indipendente e immutabile, d’altro canto elimina il rischio del nichilismo, poiché pur se privi di un’identità indefettibile, i fenomeni esistono e funzionano.
Nella sua opera Nāgārjuna definisce una critica spietata e indistruttibile alle dottrine che affermano o l’esistenza dei fenomeni in quanto tali (eternalismo) o la loro negazione assoluta (nichilismo), conducendole all’assurdità di contraddizioni interne non considerate. Tale metodo viene conosciuto come prasaṅga, riduzione all’assurdo. Śunyātā, dunque, è estrema libertà da ogni concetto, da ogni forma di attaccamento a qualsiasi idea; secondo la tradizione, infatti, Nāgārjuna afferma di non sostituire alle visioni errate degli altri alcuna dottrina propria, poiché l’esperienza di śunyātā, la vacuità, non è qualcosa che può essere recintata da un’impalcatura filosofica, la vacuità non è un assoluto, una sorta di entità che appare esistere di per sé una volta distrutti i fenomeni, come una sorta di paradiso al di là del male e dell’impuro. La vacuità è il corretto modo di esistere dei fenomeni, i fenomeni si manifestano perché vuoti di un’identità propria, tale carattere viene definito vacuità. Se non ci fossero i fenomeni, non ci sarebbe la loro vacuità.
La vacuità è abbandono di ogni opinione, e per averne esperienza diretta vi è il trascendimento del pensiero concettuale legato al linguaggio, strumenti che, identificando qualcosa, lo recintano nel miraggio del “questo è solo questo, è sempre stato così, non dipende da niente, sarà sempre così”. Tale percezione erronea, definita mondana o convenzionale, è indicata quale verità relativa (saṃvṛti- satya); la percezione libera dai condizionamenti del pensiero concettuale, e dalle reificazioni di identità, è detta verità assoluta, nel senso che i fenomeni esistono proprio in tale modalità (paramartha satya).
Dall’opera e dalla visione di Nāgārjuna si originò la tradizione Madhyamaka, la tradizione della via di mezzo, che si diffuse in tutta il mondo buddhista. In Tibet divenne punto di riferimento per tutte le scuole e in particolar modo per la scuola a cui fanno capo i Dalai lama, la scuola Gelugpa (dGe lugs pa), fondata dal Lama Tsongkhapa Losang Dragpa (Tsong kha pa Blo bzang Grags pa, 1357-1419)
Tra le opere più importanti di Nāgārjuna ricordiamo:
Mūlamadhyamakakārikā (Le stanze del cammino di mezzo),
Vigrahavyāvartanī (Lo sterminio degli errori),
Śunyātāsaptati (Le settanta stanze sulla vacuità),
Yuktiṣāṣṭika (Le sessanta stanze sul ragionamento).
Tra i discepoli indiani fondamentali della tradizione della Via di mezzo ricordiamo: Āryadeva, discepolo diretto di Nāgārjuna, autore del Catuḥśataka, I quattrocento versi; Buddhapālita, c.470-540 d.C., autore di un commentario alle Mūlamadhyamakakārikā, il Buddhapālitavṛtti; Bhāvaviveka, 500-570 d.C., autore di testi quali il Prajñāpradīpa, commentario alle Mūlamadhyamakakārikā, il Madhyamakahṛdaya, una sorta di prima enciclopedia filosofica indiana, e l’autocommentario Tarkajvālā, Fiamma del ragionamento; Candrakirti, c.600-650 d.C., forse il commentatore più importante del pensiero di Nāgārjuna. La sua opera è impiegata nella scuola Gelugpa proprio per introdurre e addentrarsi nella visione del grande maestro. Candrakirti fu l’autore del Prasannapadā, Chiare parole, commentario alle Mūlamadhyamakakārikā, l’unico pervenuto in sanscrito, e del Mūlamadhyamakāvatāra, L’ingresso nella via di mezzo, con il suo commentario Madhyamakāvatārabhāṣya, integrazione della visione Madhyamaka della vacuità con il percorso della disciplina del bodhisattva. Śāntideva, c.695-743 d.C, fu l’autore di un teso amatissimo in Tibet da tutte le scuole, il celebre Bodhicaryāvatāra, anche Bodhisattvacaryāvatāra, L’ingresso nelle gesta del bodhisattva, relativo al percorso che il bodhisattva deve effettuare per sviluppare e portare alla massima espressione la cosiddetta mente del risveglio, bodhicitta. Ricordiamo infine Śāntirakṣita e Kamalaśīla, VIII sec., maestro e discepolo, che diffusero in Tibet una forma del Madhyamaka influenzato da elementi legati alle dottrine dell’altra grande tradizione filosofica buddhista Mahāyāna, quella Yogacāra-Cittamātra. Śāntirakṣita è ricordato per l’opera Madhyamakālaṃkāra, L’ornamento del Madhyamaka, mentre Kamalaśīla è ricordato soprattutto per il Bhāvanākrama, testo esplicativo degli stadi della meditazione.